Nella rappresentazione del potere monarchico i gioielli sono un’asserzione di potere e ricchezza, quindi di prestigio. I Romanov in particolare, più di ogni altra dinastia, hanno fatto delle pietre preziose uno dei simboli del fasto della loro corte. Ma perché li chiamano “i gioielli insanguinati“?
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Dal punto di vista dei nemici della famiglia imperiale, insanguinati perché acquisiti col denaro derivato dallo sfruttamento delle masse, dal sangue dei poveri e dei lavoratori, dei servi della gleba, durante secoli di abusi e di speculazioni, di tassazioni inique. Ma lo furono anche perché furono lavati nel sangue dei loro proprietari che, fuggendo davanti alla rivoluzione, li portarono per la maggior parte con sé ma non riuscirono a salvarsi né a salvarli.
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Circondati da storie fantasiose e leggende, i gioielli della Casa regnante di Russia, subito dopo l’eccidio di Ekaterinenburg, andarono dispersi e ci vollero anni prima di riuscire a rimettere insieme questa collezione unica di gioielli che fece parte della storia russa, particolarmente dell’ultimo periodo dell’Impero, prima della morte dell’ultimo Zar Nicola II e della sua famiglia.
Una collezione unica nel suo genere
Punto d’incontro tra l’Oriente e l’Occidente, la Russia era un passaggio obbligato per le vie commerciali che si incrociavano col suo territorio – particolarmente a sud- in vicinanza della Persia, da dove provenivano turchesi, le perle del Golfo Persico e i diamanti e gli smeraldi delle Indie. Durante il XVIII secolo, le Zarine Elisabetta Petrovna, figlia di Pietro il Grande, e dopo di lei, Caterina II la Grande, fecero massicci acquisti di gioielli: la visibilità del potere passava anche attraverso l’ostentazione della ricchezza.
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Nel XIX secolo però, i gioielli divennero la dimostrazione del lusso e del potere (specialmente sotto il regno di Nicola II) e si trasformarono presto in prove d’accusa appena lo Zar fu detronizzato.
Degli oggetti unici firmati Fabergé
Fra gli oggetti più preziosi realizzati per la famiglia reale russa, un posto particolare lo occupano certamente le creazioni realizzate da un famoso orafo francese in occasione della Pasqua. Lo Zar Nicola II chiese al gioielliere di Corte Fabergé di realizzare un uovo in oro e pietre preziose, ed egli gli rispose che “sarebbe stato soddisfatto”.
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Prima della Pasqua, e di ogni Pasqua che sarebbe venuta sino al 1916, Fabergé creò per la Zarina e per l’Imperatrice, splendide e originalissime uova in oro, smalto e pietre preziose, che si aprivano svelando nel loro interno altri straordinari oggetti altrettanto preziosi che finirono presto per diventare una vera e propria collezione.
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Alexandra Feodorovna e i tentativi di salvataggio
Nell’aprile del 1918 Alexandra Feodorovna, non più imperatrice, decise di mettere al sicuro una parte dei gioielli di famiglia, affidandoli alle persone di maggior fiducia che le erano vicine e che potevano sfuggire alla strettissima sorveglianza esercitata dai militari che controllavano la loro residenza di Tobolsk.
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Le uniche che avevano il permesso di assistere la famiglia reale erano le suore del monastero Ivanov, a cui l’imperatrice affidò loro gran parte dei gioielli: diademi, collane di perle, colliers e spille, per nasconderli in qualche luogo segreto. Quando quattro mesi dopo le sorelle vennero a conoscenza dello sterminio della famiglia imperiale, terrorizzate che si potesse scoprire il tesoro loro affidato, le suore incaricarono una consorella di portarlo ad una persona di fiducia, che stesse lontano dal monastero. Fu così che i gioielli arrivarono ad un pescivendolo ma l’ uomo, forse in preda ai fumi dell’alcool, vantandosi in pubblico di essere in possesso di gioielli di indicibile valore, fu denunciato alla Polizia che, recatasi nella sua casa, trovò effettivamente la preziosa collezione di gioielli.
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Di questi oggetti ci resta solo l’immagine.
Nella casa del pescivendolo furono rinvenuti 154 gioielli, tra cui un diadema, collane e bracciali, per un valore odierno di nove milioni di euro. Ma il rapporto della polizia, che esiste ancora, non ci dice che cosa ne fu dei gioielli; è però risaputo che il governo, quando si trovavano oggetti preziosi, li inviavano segretamente in Europa occidentale dove venivano venduti ad alto prezzo e il denaro riportato in patria per finanziare la rivoluzione.
Aleksandr Fëdorovič Kerenskij
Ma gli oggetti preziosi che appartenevano ai Romanov, e che la zarina ha cercato di salvare erano anche altri: nell’agosto 1917, quando la famiglia reale lasciò il palazzo di Tsarskoje Selo, Alexandra Feodorovna ne affidò una parte al Grande Maresciallo della Corte, il conte Aleksandr Fëdorovič Kerenskij, capo del Governo provvisorio, il quale aveva assicurato alla famiglia imperiale che il soggiorno a Tobolsk sarebbe stato breve. Gli oggetti più voluminosi, come argenteria, servizi di piatti d’argento e d’oro, posateria e quadri furono imballati frettolosamente e depositati nei sotterranei del palazzo. Qualche giorno dopo la partenza della famiglia imperiale, il governo provvisorio domandò al conte di consegnare i gioielli che gli erano stati affidati dalla Zarina. Egli fu costretto ad obbedire: tutto quel che poté fare fu di farsi rilasciare una ricevuta degli oggetti consegnati. Di questo documento non c’è più alcuna traccia, come dei gioielli: anch’essi dovettero prendere la via dell’estero.
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con un diadema di brillanti e perle a pera, e una parure di perle in “pendant”
Quando la famiglia imperiale fu avvertita che si sarebbe dovuta trasferire da Tobolsk, la zarina, nel disperato tentativo di portare con sé qualche gioiello che in un incerto futuro avrebbe potuto sostituire il denaro, tentò di dissimulare un terzo gruppo di oggetti. Lo testimoniò in seguito una delle cameriere personali che aveva seguito Alexandra, la quale disse che erano state prese delle camiciole di tela spessa, poi indossate dalla madre e dalle figlie, e su quelle erano stati cuciti, avvolti nella stoffa, i gioielli: brillanti, smeraldi e ametiste, che appartenevano alla zarina e alle figlie, le quali, sotto le camicette, nascondevano delle collane, di perle e d’oro. Anche i cappelli, tra la fodera e il velluto, erano pieni di gioielli. I bottoni dei vestiti erano stati sostituiti da pietre preziose ricoperte di stoffa nera.
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Ma queste “corazze” di gioielli furono causa di ulteriori sofferenze per le povere donne poiché, quando furono fucilate, le pallottole sparate dai soldati rimbalzavano indietro, senza ferirle in punti vitali. Quando furono portate via per essere sepolte, tre di loro dovettero subire il colpo di grazia perché erano ancora vive, mediante proiettili sparati nelle orecchie. Solo in un secondo momento i soldati scoprirono il perché della loro tardiva morte: erano letteralmente ricoperte d’oro e pietre preziose, che le avrebbero salvate se non fossero state uccise alla fine.
IL SALVATAGGIO DEI GIOIELLI DELLA GRANDUCHESSA PAVLOVNA
La Granduchessa Maria Pavlovna, moglie del Granduca Vladimir di Russia e zio paterno dello Zar Nicola II, aveva sempre dominato la scena alla corte degli Zar. Di origine tedesca e di carattere forte e deciso, obbligata a cedere il passo alle Zarine durante le cerimonie ufficiali, era riuscita però ad avere le sue rivincite nelle occasioni mondane e come ambasciatrice all’estero del potere e della ricchezza dei Romanov, specialmente quando si recava in a Parigi, dove non mancava mai di fare una visita a scopo di acquisti dal gioielliere Cartier.
![Risultati immagini per Granduchessa Maria Pavlovna](https://i0.wp.com/i38.tinypic.com/23s9pww.jpg)
L’amore della Granduchessa per i gioielli era leggendario, come sappiamo dalla testimonianza da Consuelo Vanderbildt, moglie del Duca di Marlborough. Recatasi in Russia, essa rese visita alla Granduchessa, la quale la introdusse nel suo boudoir dove, disposta in delle vetrine, le mostrò una interminabile serie di parures di diamanti, rubini, smeraldi, perle, turchesi, acque marine e pietre semi-preziose, testimonianza dei continui acquisti che la nobildonna faceva.
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Quando rimase vedova si trovò tra le mani un patrimonio ingente che le consentì di incrementare i suoi capricci. Non appena vi furono le prime avvisaglie della rivoluzione, come altri nobili russi ella si rifugiò a Yalta, in Crimea, ma, credendo che l’insurrezione sarebbe stata passeggera, era partita a bordo del suo treno personale con pochi bagagli e pochi gioielli. Prolungandosi oltre il previsto il periodo di soggiorno a Yalta, la Granduchessa cominciò a temere per i suoi gioielli, e, poiché aveva viaggiato e vissuto in ambienti internazionali, sapeva bene che in caso di esilio i gioielli sarebbero stati l’unica risorsa che avrebbe potuto portare con sé.
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Si trovava nella stessa città a scopo diplomatico un agente segreto britannico, Albert Stopford, amico di vecchia data della Granduchessa, il quale le propose di recuperare i gioielli da San Pietroburgo. La storia più credibile vuole che Stopford sia partito col figlio della dama, l’arciduca Boris, e che, introdottosi di notte nel palazzo con la complicità di un servitore fedele, abbia recuperato i gioielli e sia partito per l’Inghilterra forte del suo passaporto britannico. L’altra versione, più romanzesca, vuole che Stopford sia entrato nel palazzo travestito da contadina e che abbia indossato i gioielli ricoprendosi poi di stracci per fuggire.
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Comunque sia andata, i gioielli furono depositati in una banca inglese, ma la Granduchessa non li ha mai più rivisti. Fuggì infatti dalla Russia e si rifugiò in Francia, timorosa di essere ritrovata e assassinata come i suoi regali parenti. I gioielli furono venduti dai figli, per la maggior parte allo stesso Cartier che li aveva realizzati, o a ricche ereditiere americane. Alcuni furono acquisiti dalla Casa Reale inglese, e sono tuttora nelle mani della Regina Elisabetta II.